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La vestaglia del padre

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   Alessandro Moscè ci consegna con questa raccolta, prefatta da Roberto Cotroneo, un viaggio nel tempo e nello spazio, nel quale le coordinate spazio-temporali sono raccordate tra loro. Ci troviamo davanti a istantanee del passato e del presente, con un particolare significato dei recuperi memoriali, e con un movimento geografico che va dalla Roma dell’infanzia alle Marche e Fabriano dove l’autore vive tuttora. Il carattere identitario dei luoghi è evidente nell’insistenza di questi riferimenti. Il segno del tempo è in quella macchia di sugo rimasta sulla Vestaglia del padre, che a mo’ di sineddoche dà il titolo all’intera raccolta, come parte che sta per il tutto: la lacerazione prodotta dal ricordo e lo scarto doloroso rispetto al passato assumono qui particolare pregnanza. La fugacità del tempo viene espressa bene anche quando il dettaglio riguarda qualcosa che rimane estraneo, perché non c’è stato (appunto) tempo perché diventasse altro: “Non morire ad ogni ora / che te ne vai, ragazza che scendi dal treno / e che non rivedrò mai più”. Non a caso il titolo della sezione dedicata al padre è un Senza tempo, perpetuato nel ricordo e inciso nella propria stessa biografia, mentre Primo tempo (rispetto ad altri tre successivi) è il titolo della seconda sezione.

    Il riferimento ai due luoghi geografici – Roma, le Marche – si alterna nel libro, tra la Stazione di Roma e la Stazione di Fabriano, titoli di due poesie che si susseguono a un certo punto. Ma anche sfogliando altre pagine ci troviamo spesso a muoverci tra i due luoghi geografici e insieme nel tempo: “la tua Roma degli anni Sessanta e Settanta / disseminata di turisti inglesi con l’ombrellino di carta, / rifugiata nelle strade che ballano ancora / nel brusio delle scalinate di gallerie d’arte e nel belvedere di Villa Torlonia”; “Sei il vento umido di scirocco / che batte la costa adriatica / e rovescia le onde sulla spiaggia, / che scuote il rettangolo dei vigneti / e i casolari abbandonati di campagna”.

   Il recupero memoriale avviene a partire da un momento topico nella vita di ciascuno, la perdita del padre, che è perdita di se stessi e naufragio di tutta una stagione della propria esistenza che ci lascia orfani, ovvero etimologicamente “privati”, non solo del genitore, ma anche di noi stessi, di ciò che fino a quel momento eravamo. Privazione che dunque conduce il ricordo, e le parole, a riannodare i fili di una trama strappata. Così, aprendo il libro, nella prima sezione leggiamo: “Papà, quel passo oltre la soglia del reparto / strappato al tuo respiro, l’ultimo, il più lungo // nel prato verde di palloni spioventi / e di ingressi bianco-celesti in area di rigore, / di padre in figlio, domenica dopo domenica” (p. 7). Il doppio spazio tra i primi due versi e gli altri tre è insieme stacco e ricongiungimento tra due momenti temporali, quello più recente dell’approssimarsi della perdita e quello più lontano della complicità tra padre e figlio nella passione per il calcio e per il tifo per la squadra degli anni romani, la bianco-celeste Lazio.  Quello calcistico è un filo conduttore di questa prima sezione, e qualunque figlio maschio può ritornare agli episodi analoghi nel proprio rapporto con il padre. E laddove Moscè parla di suo padre e del loro rapporto, ci parla di nostro padre e del nostro rispettivo rapporto: il caso singolo, nella poesia, è esemplificazione di una dimensione universale. Ciò non toglie che il poeta abbia necessità di tornare proprio ai ricordi personali, che restano i suoi. E così la rievocazione dei nomi dei calciatori laziali Felice Pulici e Giorgio Chinaglia serve a ridestare una mitologia familiare, a ricostituire il pantheon degli eroi dell’infanzia. E non suona strano che la loro rievocazione si accompagni a quella dei propri familiari, perché tutti partecipi all’interno di quell’orizzonte domestico.

   Si tratta di “un album di fotografie, macchie seppiate / da rovistare nei cassetti di casa” (p. 22). C’è bisogno, per i vivi, di dare un senso alla morte e ritrovare i morti nella serie di eventi minimi, nelle piccole cose quotidiane – borsa dell’acqua, cravatte – e nelle persone in cui rimane impresso il ricordo. E così si può dire al padre: “Non sei mai in un luogo a mezz’aria, ma qui / nell’odore del sonno che rompe lo sperdimento / lieve nella spalliera, nella credenza, nei ninnoli” (p. 36). E se la perdita del padre è perdita di sé bisogna recuperare sé stessi identificandosi con il padre: “La giacca a quadretti mi sembra indifesa / e la prendo in mano con uno slancio imperioso, la indosso per assomigliarti”; “Due cieli, il tuo e il mio / sovrapposti di atmosfere alberate / lungo i porticati in una pausa di memoria”.

   L’identificazione è un gesto estremo, rispetto all’impossibilità di riportare indietro il treno della vita e del tempo trascorso:

 

La breve sosta sul ponte di un paese innevato

con i lumi rettangolari delle carrozze

di treni notturni di pece

sferragliati da una zoomata

e spariti dietro il colle,

no, non tornerà più.

Non tornerà con le frecce ad alta velocità

né con il biglietto comprato online

o con la guida del viaggiatore sotto mano.

Non c’è più un sogno d’infanzia

che si sposta con il treno.

 

   La seconda sezione, detta Primo tempo, s’intitola proprio Stazioni e si apre con il testo qui riportato e in essa compare poco dopo la già ricordata Stazione di Fabriano che, con il suo carico di pendolari “con l’auricolare e l’iPhone in mano”, ci riconduce all’oggi anche se per virare immediatamente verso un confronto con gli scompartimenti dei treni d’una volta; e la stazione successiva è a sua volta quella della Roma di oggi: “L’ombra immobile di Roma Termini / dove i maghrebini fumano sigari”, e c’è qui ancora una messicana e in un testo successivo albanesi ed etiopi: a segnare una realtà italiana diversa da quella autarchica e in bianco e nero degli anni d’infanzia. In queste stazioni ritroviamo istantanee nelle quali narrazione e descrizione non sono meramente cronachistiche e il paesaggio è spiritualizzato: “Le colline di confine / accompagnano le tue gambe / nella continuità di una forma, / nel paesaggio che ti assomiglia, / nella fotografia infinita / delle ombre riposte di taglio (p. 50).

   L’agguato dei ricordi continua a tramare tutto il libro, e sono loro, i ricordi, a compiere le Visite a cui è intitolato il Secondo tempo (e terza sezione): “La visita di nonna Irma con il cappello di feltro / da gran dama dell’Ottocento / e le mani lunghe, macchiate sul dorso / si apre ad un immortale vociare / che avevo dimenticato”, e compare poi anche il nonno Ernesto. E ben tre Natali, rispettivamente del 1975, del 1976 e del 2013 si riaffacciano alla mente, per far concludere che “Il Natale è spoglio nei condomini di oggi”. Queste visite, dunque, le si vorrebbe trattenere: “Raccogli le ombre, una ad una / e sistemale nell’album dei francobolli, / spogliale sul letto di un albergo / con l’indolenza dei liceali”; ma il compito non è facile e il poeta deve ammettere che i ricordi vanno “incontro alla mia mano / che li afferra / e non li prende”.

   Se il Terzo tempo (e quarta sezione), Degenza ci riporta nei reparti d’un ospedale, dai quali eravamo partiti per il ricovero del padre, e per incontrarvi ora, tra gli altri, il poeta Franco Loi, un camionista e un ragazzino biondo, il Quarto tempo (quinta e ultima sezione), Follia ci trattiene ancora nelle corsie della sofferenza. L’ex manicomio a cui il poeta si riferisce è quello di Perugia “dove tutto / è un’altra cosa dopo la legge Basaglia”: ma è pur sempre vero che “La follia è un mondo di guerre / che esiste nel turbine delle visioni”. Troviamo tra gli altri Primo, che fa venire il mal di testa alle donne cambiando continuamente canale in tv, e Marisa detta “la tenente”. Una galleria di sofferenza psichica che ricorda quella nella quale ci ha portati un altro autore marchigiano, Umberto Piersanti, in Anime perse ambientato in una comunità di accoglienza del Montefeltro. Se il poeta Piersanti in questi racconti sfiora la poesia, nel senso ampio del termine, rimanendo un narratore nel recinto della prosa, in questo suo libro, l’altro marchigiano Moscé da poeta ci restituisce racconti del tempo perduto restando con sobrietà nel recinto della poesia, una poesia misurata in un linguaggio piano che va in profondità. E chiudendo l’ultima sezione ci dona questa considerazione in poesia che rende il tono dell’intera raccolta:

 

 

L’amore è la necessità della mia malinconia,

la giovinezza rincorsa da un millennio,

la stazione che prepara un addio.

È vero che amiamo chi non c’è più

come la prima volta,

non durante l’abbraccio, ma dopo che se ne è andato?

Nessuno ha ancora capito che l’essere creati

non risparmia dalla solitudine di un parto,

l’intermezzo tra un io e un noi

nella quiete di ogni rinvio o illusione

per l’eternità dei figli mai nati.

 

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